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Se corruzione e ambiguità non fanno più distinguere la cura dalla tortura, la scienza dalla barbarie, il diritto dal sopruso, il rischio di un nuovo Olocausto è sempre in agguato: come emerge da questo approfondimento sulla “morte per contenzione” di Franco Mastrogiovanni, scritta da Serena Romano e condivisa da Stefano Rodotà, Francesco Casavola, Paolo Maddalena, Gerardo Marotta, Peppe Dell’Acqua, Massimiliano Marotta…  
In questo momento in Italia, almeno un centinaio di persone con disagio mentale sono legate a letti di contenzione in reparti a “porte chiuse”. E rischiano di fare la stessa fine di Franco Mastrogiovanni: il maestro elementare che nell’agosto 2009, legato mani e piedi ad un letto del servizio psichiatrico dell’ospedale di Vallo della Lucania, è stato slegato dopo 4 giorni e 4 notti: e non perché la “cura” tramite “contenzione” fosse terminata, ma perché era morto.

 La telecamera a circuito chiuso dell’ospedale ha ripreso tutto e oggi sul video che circola via internet sono documentati per la prima volta gli effetti devastanti della contenzione. Immagini che oltre alla compassione per un essere umano denudato di abiti e diritti e ridotto a “cosa”, sollevano alcuni inquietanti  interrogativi, fra i quali il dubbio che a chiunque può capitare di subire analoghi soprusi.

                          Contenzione:  cura  o  tortura ?  

Molti vorrebbero far credere che la contenzione sia una pratica terapeutica deprecabile, ma necessaria e occasionale. Ma questo video smentisce chiunque tenti di  contrabbandare come “cura” il filmato in diretta di una “tortura”. E dà ragione a medici e giuristi che da anni, sulla base della Costituzione e delle leggi vigenti, denunciano l'illegittimo ricorso alla contenzione in quanto pratica dannosa, violenta, “non medica” e “non terapeutica” che rende addirittura incurabile chi l’ha subìta.
Come testimonia questo filmato, infatti, non è una pratica eccezionale dettata dalla necessità. Di routine nell’80% degli SPDC (Servizi psichiatrici ospedalieri per le crisi)  d'Italia, ha avuto epiloghi altrettanto tragici a Milano, Brescia, Cagliari, Bari. Ed è adottata solo per ignoranza e “comodità”. Cioè: “… per punire comportamenti percepiti come “cattivi comportamenti”; per indurre il “colpevole” a comportarsi in maniera diversa; e per motivi di comodità del personale: ovvero, per  “mettere al sicuro” i pazienti “difficili” mentre vengono svolte altre attività”, come rivela l’indagine svolta in Italia dall’ “European Committee for the Prevention of torture and inhuman or degrading treatment or punishment”.

Il filmato di Vallo della Lucania, dunque, conferma un atroce andazzo: perché Franco Mastrogiovanni non era agitato e non opponeva resistenza mentre viene legato nel sonno dove comincia, come in un film dell’orrore, la sua straziante agonia. Per 87 ore, infatti, non riceve acqua, cibo, nè risposta alle richieste di aiuto. Solo quando dai polsi lacerati, il sangue scorre per terra, qualcuno si avvicina. Ma non per soccorrerlo: per pulire il pavimento. Così, come una bestia terrorizzata destinata al macello, senza il conforto di uno sguardo o una voce amica, vive in solitudine il suo martirio: fino a che la Morte – più pietosa dei suoi “aguzzini” -  viene a prenderne l’anima.  A portare via il corpo, invece, ci penserà il personale: ma solo dopo 6 ore dal decesso. Evidentemente è troppo distratto dalla routine ospedaliera per accorgersi di lui: sia da vivo, che da morto. Né sembra  preoccuparsi dell’occhio vigile della telecamera: come accade nei lager, infatti, l’orrore praticato quotidianamente non è più percepito come tale, perché l’orrore è diventato “normalità”. 

               Servizi  psichiatrici  o  campi  di  sterminio ?

Proprio le immagini dell’orrore divenuto normalità, rimandano a quelle di altri letti di contenzione in una ex scuola di Phnom Phen, in Cambogia, oggi museo del genocidio.

 

Qui i “khmer rossi”, seguaci del sanguinario dittatore Pol Pot, hanno sterminato migliaia di persone con torture così atroci e prolungate, da rendere invidiabile la rapida morte nelle camere a gas. E fra le torture finalizzate alla sottomissione e alla confessione dei prigionieri, la “preferita” era la contenzione: perché annienta la personalità dell’individuo ancora prima del suo corpo ed è distruttiva anche quando non uccide. Come volevano, appunto, gli aguzzini cambogiani.
Qualsiasi essere umano impedito nei movimenti, infatti, ha una reazione innata: si divincola per liberarsi. E’ una reazione spontanea come alzare la mano per pararsi il viso da uno schiaffo. Ma durante la contenzione, la reazione di difesa dettata dall’istinto di sopravvivenza, aumenta il dolore. Perché più la persona legata si agita, più si ferisce e soffre: più la pelle dove i legacci stringono, si lacera; più la muscolatura si irrigidisce e il corpo si contrae nella morsa dei crampi; più il terrore di non avere scampo si concretizza a tal punto che la risposta alla violenza subìta inverte la rotta. Andando in senso opposto a quello dettato dall’istinto di sopravvivenza, l’uomo si immobilizza e per evitare che il dolore aumenti, rinuncia ad esercitare il suo “naturale diritto alla difesa”. Diventa così un essere che, privato della sua identità, va “contro natura”: perché accetta la violenza in silenzio, senza muoversi, né protestare. Proprio come pretendono le “Regole di comportamento da tenere durante la tortura” esposte nel lager cambogiano: “Durante le bastonate o l’ electrochoc è vietato gridare forte. Restate seduti tranquilli. Attendete i nostri ordini senza fare niente. Se vi chiediamo di fare qualcosa, fatelo immediatamente senza protestare… o sarete puniti con colpi di bastone, fili elettrici e electrochoc (e vi sarà vietato anche contare questi colpi)…”
E queste regole di comportamento, la contenzione, l’electrochoc sono anche i cardini della vecchia legge “Sui manicomi e gli alienati” del 1904: “Legare il paziente al letto o comunque immobilizzarlo mediante camicie di forza, vari tipi di fasce o “fascette”, catene, manette, rappresenta una grave limitazione della libertà personale… che era praticata… per lo più con intenti punitivi e di demolizione della personalità “perversa” del paziente…” scrive Girolamo Digilio uno dei  fondatori dell’Unasam (
Unione nazionale Associazioni per la Salute Mentale), parte civile nel processo sulla vicenda Mastrogiovanni). A parte, dunque, l’obiettivo finale – lo sterminio – la filosofia dei manicomi è simile a quella dei lager cambogiani. Priva di finalità terapeutiche e riabilitative, l’unica finalità della vecchia legge era la “custodia” in manicomio di individui ritenuti “pericolosi”, colpevoli di dare “pubblico scandalo” e “inguaribili”: perciò non ne uscivano più, perdevano i diritti di cittadino e il loro nome finiva nel casellario giudiziario. Non malati, dunque, ma prigionieri: ergastolani della follìa.

E come rivela la vicenda di Mastrogiovanni, questa concezione del “matto colpevole” resiste ancora: nonostante l’evidenza scientifica della sua infondatezza e la legislazione che la avvalora. Quando alla fine degli anni 70, infatti, gli psicofarmaci e un adeguato supporto psicologico dimostrano – grazie all’esperienza di Franco Basaglia – che è possibile curare e reinserire nella società i malati mentali, cambia la legge e il suo obiettivo: non più “custodire”, ma “curare”. E cambia il ruolo di medici e infermieri: non più custodi e carcerieri. E cala anche la violenza nei reparti psichiatrici: dimostrando che l’aggressività non è “intrinseca alla malattia mentale” ma provocata soprattutto dalla violenza subita dai pazienti dietro le porte chiuse. Sulla base di queste acquisizioni scientifiche e legislative, la contenzione oggi è considerata illecita, superata, incompatibile con la “cura”: in tutti i luoghi d’Italia e d’Europa in cui  è stata sostituita con il “contenimento emotivo” o “gruppale” e in cui l’atteggiamento degli operatori non è aggressivo ma accogliente, “non è quasi mai necessario contenere fisicamente l’aggressività o contrastare il desiderio di fuga del paziente”.
Se si può fare a meno della contenzione, non ci sono alibi per eludere la legge che la vieta. Anche perchè i  “camici bianchi” che per ignoranza, pregiudizi, “comodità” o altri interessi non la rispettano, alimentano l’assurda convinzione di potere coniugare il ruolo di medico con quello di carceriere e di potere “imporre una cura” a chi è stata appena “imposta una tortura”.    

                    “Camici bianchi”  o  “khmer rossi”  ?

Chiunque, per guarire, deve fidarsi di chi lo cura. Ma quale malato mentale dopo ore di contenzione, può fidarsi di “camici bianchi” percepiti come “khmer rossi”? Sarebbe come chiedere a una donna di farsi curare dal medico che l’ha violentata. In realtà, l’uomo ridotto all’impotenza da ore di contenzione, non è un malato “tranquillizzato” che poi si può curare, ma l’opposto. E’ diventato incurabile. Perché oltre ai “nemici” che vede attorno a sè, ne ha troppi anche dentro di sé per farcela. Perché è arduo riaccendere quella “voglia di reagire” per guarire, distrutta dalla contenzione. Perché chi rema contro, è il malato stesso: o più esattamente, la sua memoria che – nonostante psicofarmaci, psicanalisi o altre terapie – non riesce a cancellare il ricordo dell’abiezione subita stando in contenzione. Un ricordo insopportabile che finisce sempre per sbucare fuori: magari all’improvviso o nel sonno, trasformando i sogni in incubi dei quali rimane traccia anche al risveglio. Così, per sopprimere la propria assordante memoria, c’è chi ricorre all’unico modo ritenuto possibile: sopprimere sè stesso. I suicidi non sono conteggiati nella casistica dei morti e dei danni da contenzione: che è più consistente, quindi, di quanto appaia. E la casistica non tiene conto nemmeno di quelli che dai letti di contenzione passano direttamente nei reparti di rianimazione e medicina di urgenza: perchè la contenzione, aggiunta a una pesante terapia farmacologica, moltiplica rischi e danni fisici da stasi circolatoria, disturbi pressori, ritenzione urinaria, embolia polmonare, disturbi cardiaci che diventano la causa ultima, quella “formale” di morte, ma non la vera.
Del resto, cliccando  “contenzione” su siti come il forumsalutementale.it  emergono centinaia di soprusi che configurano altrettanti reati. Perché, allora, non vengono puniti? Perché più sono i colpevoli, più aumentano complicità e omertà e si riduce la percezione della gravità del reato. In particolare, le colpe di medici, infermieri e psichiatri, non vengono percepite dall’opinione pubblica nella loro vera gravità. Mastrogiovanni, infatti, è un adulto gigantesco, presunto “pazzo”: quindi, pregiudizialmente “pericoloso”. E lo legano al letto medici e infermieri: il che crea dubbi e ambiguità che rimbalzano fin dentro le aule dei tribunali. Come evidenziato in un seminario a Mantova:  “Se un insegnante lega un allievo al banco è chiaramente perseguibile per il reato di sequestro di persona o violenza privata, ma non accade lo stesso se uno psichiatra lega un malato di mente: anche se sono entrambi “pubblici ufficiali” che si avvalgono del proprio potere per limitare la libertà di una persona che gli è affidata”. A parità di reato, dunque, il giudizio è diverso, perché il giudice spesso è condizionato “dalla convinzione diffusa che l’arte medica sia per definizione buona”.  Anche se, in psichiatria, questo è un “pregiudizio” ancora più falso di quello sulla “pericolosità della follìa”.

 

                             PSICHIATRIA : la più pericolosa delle "medicine"

 

 “Stasera vi racconto la storia di uno sterminio di massa di cui si parla solo nei convegni degli psichiatri. Si tratta di 300.000 vite umane che hanno cominciato a morire prima dei campi di concentramento nazisti, prima di ebrei, zingari, omosessuali e comunisti, in un edificio del Sud della Baviera dove un cartello indica: “ zona per sanare e curare” . E’ un ospedale psichiatrico i cui responsabili – anche alcune suore cattoliche – non risulteranno coscienti dei propri  crimini. Perché quei crimini furono supportati e promossi dalla medicina. In particolare da una nuova scienza: l’eugenetica o scienza dell’ereditarietà”.  Così esordisce l’attore Marco Paolini nello straordinario monologo “Ausmerzen: vite indegne di essere vissute” (vedi video).

E continua: “Ogni tanto in natura nasce un individuo brutto o storpio: per migliorare, allora, la razza umana, si può impedire che quelli sbagliati si riproducano”.  Questa è la filosofia  dell’eugenetica che all’inizio del secolo trova consensi scientifici in tutto il mondo: si cominciano a sterilizzare, così, disabili e malati di mente… Un’intera classe di medici e psichiatri si forma su questa disciplina prima che Hitler vada al potere nel gennaio del ’33 annunciando che in giro ci sono 500.000 cittadini geneticamente inaccettabili e che 181 “corti genetiche” esamineranno tutte le persone con patologie ereditarie da tagliare sul nascere per pulire il sangue di una nazione… Non è il nazismo, dunque, che crea queste idee: è da queste idee che si forma il nazismo…”
Insomma, le masse seguono i leader. I leader di allora furono gli scienziati che misero il timbro di fattibilità sotto quell’operazione: ma i leader di oggi sono quegli psichiatri che tollerando la contenzione, alimentano nell’opinione pubblica i pregiudizi sulla pericolosità e l’incurabilità della malattia mentale. 

                   La  crisi  economica  giustifica  l’ orrore ?

Il razzismo è una malattia antica: va e viene. Ma il suo virus non muore mai e basta poco per scatenare una nuova epidemìa. “Io non voglio raccontare le cose come se ci fossero cause e effetti predeterminati – continua Paolini – ma per capire quanto accadde in Germania, è fondamentale ricordare un evento di portata mondiale: la crisi economica del 1929 che in America e in Europa spinge gli uomini sulle strade come topi per la perdita del lavoro… Se in una situazione in cui non hai soldi per badare alla tua famiglia qualcuno ti dice che lo Stato mantiene persone che non lavorano, la cosa non ti sarà indifferente… Soprattutto  se contemporaneamente si insegna la genetica o la matematica nelle scuole  con questi esempi:  ”In Germania un pazzo costa allo Stato 4 marchi al giorno e uno storpio 5,50 (…) Se gli epilettici, i pazzi, gli schizofrenici sono circa 300.000, quanto costano in tutto? E quanti prestiti di 100 marchi alle coppie di giovani sposi si ricaverebbero risparmiando questa somma…?” 

Anche oggi in Italia, per tagliare le spese alla sanità si rischia di “tagliare i malati”?
Mi ha agghiacciato sentire parlare di togliere risorse alla salute mentale… – ha scritto Peppe Dell’Acqua, per 30 anni direttore di quel Dipartimento di Salute Mentale di Trieste divenuto un faro per la psichiatria internazionale -  Perché mi ha ricordato certe dichiarazioni del partito neonazista greco “Alba dorata” che di fronte al taglio delle spese in quel paese in crisi, ha detto che bisogna cominciare a ripensare a forme di eutanasia, e dunque di sterminio, di persone con handicap o malattia mentale….”.  Certo, quando una crisi mondiale si abbatte su una società come la nostra in cui la corruzione ha contagiato il potere politico ed economico, e in cui  ambiguità e ipocrisia rendono difficile distinguere la cura dalla tortura, la scienza dalla barbarie, il diritto dal sopruso, il lecito dall’illecito, l’interesse pubblico da quello privato, c’è il rischio di tagliare con le spese anche i malati. E il rischio aumenta se – come sta accadendo – l’angoscia della crisi distrugge la solidarietà. Se l’orrore diventa normalità non solo per chi lo compie, ma anche per chi lo sta a guardare. Se si diventa incapaci di difendere i diritti di quei cittadini che andrebbero protetti perché risentono maggiormente delle conseguenze psicologiche e materiali della crisi: i tagli alle cure domiciliari dei malati di mente o di Sla, ne sono una prova. E sono tagli, oltre che iniqui, anche tecnicamente sbagliati perchè aggravano sia le malattie che la spesa sanitaria. Il tentativo oggi in atto, infatti,  di ospedalizzare queste cure, annullando i risultati terapeutici e i risparmi resi possibili dai servizi territoriali voluti dalla legge Basaglia – che consentono di curare e guarire le persone direttamente nelle loro case – serve solo ad  alimentare il business dei “nuovi manicomi pubblici e privati”  sostenuti dallo Stato: nel 1971 il manicomio San Giovanni di Trieste “custodiva” senza curarle 1200 persone al costo annuo (tradotto in euro) di 30 milioni, contro i 19 milioni di euro spesi nell’anno 2011 dal Dipartimento di Salute Mentale di Trieste per riabilitare e guarire 4.200 persone. Ebbene, poichè in periodi di crisi, la depressione, gli attacchi di panico o i suicidi hanno una crescita enorme, oggi non possiamo permetterci il lusso di sprecare risorse: per il 95% curabili a basso costo, se  sono trascurate, aumentano e cronicizzano al punto da diventare un’insostenibile emergenza economica e sociale.  
Se il Potere – economico, politico, delle lobbies e delle caste – dunque, sta con i forti e con i ricchi, tocca a noi cittadini, anche nel nostro interesse, fare pressione perché diritti intoccabili non vengano calpestati con il pretesto della crisi. Come? Franco Basaglia ha utilizzato l’arma della Costituzione per affermare il diritto dei  malati mentali ad essere trattati come persone e non come oggetti da manipolare, spostare o far finta di curare come è più comodo e redditizio. E come suggerisce Daniele Piccione dal Forum Salute Mentale, tuttora la Costituzione può essere l’arma del cittadino contro l’esercizio dei poteri illegali, abusivi, illegittimi sia dei privati che dei  pubblici apparati. Nel caso della contenzione,  per esempio, ci protegge con la forza garantista dell’articolo 13 – “La libertà personale è inviolabile…” -  che ne sancisce l’incostituzionalità e l’illegalità, sempre e senza eccezioni. Nel caso di luoghi ghettizzanti che spersonalizzano e sottraggono dignità al malato mentale e ad ogni recluso, ci difende con l’articolo 27:   “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. E con  l’articolo 2 difende il malato come “persona” contro l’ignobile stigma di pericolosità: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo…”
Insomma, la Costituzione, grazie alla sua funzione di limite all’esercizio del potere, oggi, può incarnarsi in ribelle movimento di lotta contro gli abusi di potere.  
Tocca a noi cittadini, dunque, impedire che la tragedia di Mastrogiovanni venga accantonata se non fa più notizia, per diventare occasione di riflessione civile e profonda, caso da discutere intorno al quale creare un movimento di sensibilizzazione contro la contenzione. Solo così, con pazienza, determinazione e costanza, infatti, si potranno liberare,  uno ad uno,  i tanti   “matti da slegare”.

Questo approfondimento è di Serena Romano, giornalista professionista,   presidente dell’Associazione di familiari e amici dei sofferenti psichici ”La Rete sociale” e blogger de “I lenzuoli bianchi”: ma è stato anche sottoscritto  da esponenti del mondo accademico e istituzionale,  delle professioni e della cultura, che ne condividono il contenuto  e intendono  impegnarsi a sostenerne le finalità.  Fra questi:  Stefano Rodotà,  giurista e politico – Francesco Paolo Casavola, Presidente emerito della Corte Costituzionale – Gerardo Marotta, Presidente Istituto Italiano Studi Filosofici - Paolo Maddalena, Vicepresidente Emerito della Corte Costituzionale – Massimiliano Marotta, Presidente  Società di Studi Politici - Peppe Dell’Acqua, psichiatra, già direttore del Dipartimento Salute Mentale di Trieste, autore anche di uno specifico intervento dal titolo “… Per continuare…” (pubblicato su forumsalutementale.it)                                                    

 

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